Salta al contenuto principale

Presente e Presenza

di Edoardo Conte

Si fa un gran parlare di una nuova tecnica che sembrerebbe spazzare via la vecchia metodica della psicologia basata sull’analisi e l’introspezione, applicando una versione modernizzata del Qui ed ora. Mi sto riferendo alla “Mindfulness”.

Il termine anglosassone indica una consapevolezza della mente che stando nel presente è decondizionata e libera di scegliere. Niente di nuovo sotto il sole. Tutta la filosofia orientale e il pensiero buddhista basano la via della liberazione sullo svuotare la mente per cogliere l’attimo, il segno della direzione del flusso vitale. Ma la Mindfulness promette di più. Il mantra che ripete a dimostrare la propria originalità è: “Attenzione deliberata al presente non giudicante”, ossia, focalizzazione cosciente, istante dopo istante, dell’attività fisica, emotiva e, soprattutto, mentale, senza applicare il giudizio. Fin qui tutto parrebbe concordare con le più sane tecniche di distacco, osservazione e presa di coscienza che da migliaia d’anni impegnano aspiranti e discepoli di ogni grado. Nessuna novità, dunque.

Ma il fatto è che c’è un fraintendimento di base sul concetto del “Qui ed ora”, per cui viene asserito che l’attenzione posta sul proprio corpo attraverso i sensi rende l’individuo cosciente del presente e lo libera dal giogo dei condizionamenti materiali. Vengono esemplificati esercizi di attenzione al respiro presi dal “Pranayama yoga” come producenti la disidentificazione dalla mente e, quindi, realizzanti uno stato di osservazione distaccata.

Ciò non è esatto!
Il pranayama yoga serve per calmare i propri corpi fino a fermarli, adottando un linguaggio a loro conosciuto, per poterli, poi, mediante la meditazione, porli in una nuova attività riprogrammata dall’Anima. È ovvio che se ascolto il mio respiro entro in un contatto più profondo con il mio corpo, cioè con il mio Deva fisico che respira. L’Anima, al contrario del Deva, non respira. Se porto attenzione al respiro non mi sto connettendo all’Anima, dunque, ma ai miei Deva. Sto istruendo i miei corpi fisico, emotivo e mentale a stare tranquilli e soprattutto fermi per consentire a me, coscienza, di contattare la dimensione animica ad un’ottava superiore rispetto allo spazio-tempo che la sapienza antica nomina: dimensione Buddhica.

Ascoltando il respiro in espansione e contrazione, attimo dopo attimo, divento consapevole della mia costrizione nella linearità dello spazio-tempo, da cui sgorga spontanea, nella mia interiorità, l’aspirazione ad evadere, elevare la condizione materiale e liberarmi del fardello temporale. Questo è sicuramente un aiuto per contattare l’Anima ma non è vivere il presente. Non è nemmeno ciò che la Mindfulness asserisce essere raggiungibile attraverso “l’attenzione deliberata non giudicante”, mediante l’uso dei sensi. Quello è il presente del "momentum spazio-temporale", ossia, un punto della sequenza lineare del tempo su cui è posta l'attenzione. Un'attenzione certamente utile alla coscienza per addestrare i Deva e divenire consapevole delle loro risposte automatiche; ma non certo un'attenzione che conduca alla realizzazione dell'“Eterno Presente”. 

Un esempio dell'attenzione al Qui ed ora temporale, percepito attraverso i sensi, è quello del meccanismo del dolore. Il dolore fisico, infatti, più di ogni altro mezzo, pone istantaneamente la coscienza a stretto contatto con il proprio corpo, istante dopo istante. In questo caso il dolore ha la funzione di allertare la coscienza su di uno squilibrio eterico-psico-somatico. È, dunque, uno stimolo positivo all'elaborazione psicologica del dolore. D'altro canto, l'attenzione costante al dolore lo intensifica, poichè l'energia segue il pensiero e dove poniamo la nostra attenzione, là si accumula energia. Il paradosso della conoscenza è sempre in atto. Conoscere ci aiuta da un lato a scoprire i lati oscuri della nostra psiche, ma, dall'altro, ci induce a percorrerne il labirinto con il pericolo di perderci nei suoi meandri ed accrescere la sofferenza stessa. È, comunque un rischio che dobbiamo affrontare.

Altro è l'Eterno Presente, giammai passato e non mai futuro, colto dalla coscienza quando, distaccata dai sensi e, quindi, disidentificata dai propri corpi, è rapita nell’interludio tra due momenti spazio-temporali, dove, fuori dal tempo e dallo spazio, è immersa nella “PRESENZA” del piano Buddhico o dimensione dell’ANIMA. La Presenza è lo stato di perfetta centratura e chiara visione delle capacità e dei compiti che l'Anima si da ad ogni incarnazione. Essa non è avvertita in alcun modo dai sensi. Non lascia alcun ricordo o sensazione fisica al ritorno nel tempo; anche se la persona, mediante la mente e il corpo emotivo, tende a ricostruirne una immagine riflessa colta come uno stato di perfetta pace.

L'esperienza fulminea della Presenza, consente alla coscienza di divenire fautrice del proprio destino. Non più costretta dai vincoli della personalità, né tantomeno dalle fluttuazioni di un presente sensorio mutevole è, finalmente libera di esprimere se stessa al servizio responsabile del Piano Divino.

Argomento